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  • 16 ott 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Cari Fratelli e Sorelle, buongiorno,


Leggendo la Bibbia ci imbattiamo continuamente in preghiere di vario genere. Ma troviamo anche un libro composto di sole preghiere, libro che è diventato patria, palestra e casa di innumerevoli oranti. Si tratta del Libro dei Salmi. Sono 150 Salmi per pregare.

Esso fa parte dei libri sapienziali, perché comunica il “saper pregare” attraverso l’esperienza del dialogo con Dio. Nei salmi troviamo tutti i sentimenti umani: le gioie, i dolori, i dubbi, le speranze, le amarezze che colorano la nostra vita. Il Catechismo afferma che ogni salmo «è di una sobrietà tale da poter essere pregato in verità dagli uomini di ogni condizione e di ogni tempo» (CCC, 2588). Leggendo e rileggendo i salmi, noi impariamo il linguaggio della preghiera. Dio Padre, infatti, con il suo Spirito li ha ispirati nel cuore del re Davide e di altri oranti, per insegnare ad ogni uomo e donna come lodarlo, come ringraziarlo e supplicarlo, come invocarlo nella gioia e nel dolore, come raccontare le meraviglie delle sue opere e della sua Legge. In sintesi, i salmi sono la parola di Dio che noi umani usiamo per parlare con Lui.

In questo libro non incontriamo persone eteree, persone astratte, gente che confonde la preghiera con un’esperienza estetica o alienante. I salmi non sono testi nati a tavolino; sono invocazioni, spesso drammatiche, che sgorgano dal vivo dell’esistenza. Per pregarli basta essere quello che siamo. Non dobbiamo dimenticare che per pregare bene dobbiamo pregare così come siamo, non truccati. Non bisogna truccare l’anima per pregare. “Signore, io sono così”, e andare davanti al Signore come siamo, con le cose belle e anche con le cose brutte che nessuno conosce, ma noi, dentro, conosciamo. Nei salmi sentiamo le voci di oranti in carne e ossa, la cui vita, come quella di tutti, è irta di problemi, di fatiche, di incertezze. Il salmista non contesta in maniera radicale questa sofferenza: sa che essa appartiene al vivere. Nei salmi, però, la sofferenza si trasforma in domanda. Dal soffrire al domandare.

E tra le tante domande, ce n’è una che rimane sospesa, come un grido incessante che attraversa l’intero libro da parte a parte. Una domanda, che noi la ripetiamo tante volte: “Fino a quando, Signore? Fino a quando?”. Ogni dolore reclama una liberazione, ogni lacrima invoca una consolazione, ogni ferita attende una guarigione, ogni calunnia una sentenza di assoluzione. “Fino a quando, Signore, dovrò soffrire questo? Ascoltami, Signore!”: quante volte noi abbiamo pregato così, con “Fino a quando?”, basta Signore!

Ponendo in continuazione domande del genere, i salmi ci insegnano a non assuefarci al dolore, e ci ricordano che la vita non è salvata se non è sanata. L’esistenza dell’uomo è un soffio, la sua vicenda è fugace, ma l’orante sa di essere prezioso agli occhi di Dio, per cui ha senso gridare. E questo è importante. Quando noi preghiamo, lo facciamo perché sappiamo di essere preziosi agli occhi di Dio. È la grazia dello Spirito Santo che, da dentro, ci suscita questa consapevolezza: di essere preziosi agli occhi di Dio. E per questo siamo indotti a pregare.

La preghiera dei salmi è la testimonianza di questo grido: un grido molteplice, perché nella vita il dolore assume mille forme, e prende il nome di malattia, odio, guerra, persecuzione, sfiducia… Fino allo “scandalo” supremo, quello della morte. La morte appare nel Salterio come la più irragionevole nemica dell’uomo: quale delitto merita una punizione così crudele, che comporta l’annientamento e la fine? L’orante dei salmi chiede a Dio di intervenire laddove tutti gli sforzi umani sono vani. Ecco perché la preghiera, già in sé stessa, è via di salvezza e inizio di salvezza.

Tutti soffrono in questo mondo: sia che si creda in Dio, sia che lo si respinga. Ma nel Salterio il dolore diventa relazione, rapporto: grido di aiuto che attende di intercettare un orecchio che ascolti. Non può rimanere senza senso, senza scopo. Anche i dolori che subiamo non possono essere solo casi specifici di una legge universale: sono sempre le “mie” lacrime. Pensate a questo: le lacrime non sono universali, sono le “mie” lacrime. Ognuno ha le proprie. Le “mie” lacrime e il “mio” dolore mi spingono ad andare avanti con la preghiera. Sono le “mie” lacrime che nessuno ha mai versato prima di me. Sì, tanti hanno pianto, tanti. Ma le “mie” lacrime sono le mie, il “mio” dolore è mio, la “mia” sofferenza è mia.

Prima di entrare in Aula, ho incontrato i genitori di quel sacerdote della diocesi di Como che è stato ucciso; proprio è stato ucciso nel suo servizio per aiutare. Le lacrime di quei genitori sono le lacrime “loro” e ognuno di loro sa quanto ha sofferto nel vedere questo figlio che ha dato la vita nel servizio dei poveri. Quando noi vogliamo consolare qualcuno, non troviamo le parole. Perché? Perché non possiamo arrivare al suo dolore, perché il “suo” dolore è suo, le “sue” lacrime sono sue. Lo stesso è di noi: le lacrime, il “mio” dolore è mio, le lacrime sono “mie” e con queste lacrime, con questo dolore mi rivolgo al Signore.

Tutti i dolori degli uomini per Dio sono sacri. Così prega l’orante del salmo 56: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro?» (v. 9). Davanti a Dio non siamo degli sconosciuti, o dei numeri. Siamo volti e cuori, conosciuti ad uno ad uno, per nome.

Nei salmi, il credente trova una risposta. Egli sa che, se anche tutte le porte umane fossero sprangate, la porta di Dio è aperta. Se anche tutto il mondo avesse emesso un verdetto di condanna, in Dio c’è salvezza.

“Il Signore ascolta”: qualche volta nella preghiera basta sapere questo. Non sempre i problemi si risolvono. Chi prega non è un illuso: sa che tante questioni della vita di quaggiù rimangono insolute, senza via d’uscita; la sofferenza ci accompagnerà e, superata una battaglia, ce ne saranno altre che ci attendono. Però, se siamo ascoltati, tutto diventa più sopportabile.

La cosa peggiore che può capitare è soffrire nell’abbandono, senza essere ricordati. Da questo ci salva la preghiera. Perché può succedere, e anche spesso, di non capire i disegni di Dio. Ma le nostre grida non ristagnano quaggiù: salgono fino a Lui che ha cuore di Padre, e che piange Lui stesso per ogni figlio e figlia che soffre e che muore. Io vi dirò una cosa: a me fa bene, nei momenti brutti, pensare ai pianti di Gesù, quando pianse guardando Gerusalemme, quando pianse davanti alla tomba di Lazzaro. Dio ha pianto per me, Dio piange, piange per i nostri dolori. Perché Dio ha voluto farsi uomo – diceva uno scrittore spirituale – per poter piangere. Pensare che Gesù piange con me nel dolore è una consolazione: ci aiuta ad andare avanti. Se rimaniamo nella relazione con Lui, la vita non ci risparmia le sofferenze, ma si apre a un grande orizzonte di bene e si incammina verso il suo compimento. Coraggio, avanti con la preghiera. Gesù sempre è accanto a noi.


Papa Francesco, Udienza Generale, Mercoledì 14 Ottobre 2020



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Cari fratelli e sorelle, sembra che il tempo non è tanto buono, ma vi dico buongiorno lo stesso!


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Per uscire migliori da una crisi come quella attuale, che è una crisi sanitaria e al tempo stesso una crisi sociale, politica ed economica, ognuno di noi è chiamato ad assumersi la sua parte di responsabilità cioè condividere le responsabilità. Dobbiamo rispondere non solo come persone singole, ma anche a partire dal nostro gruppo di appartenenza, dal ruolo che abbiamo nella società, dai nostri principi e, se siamo credenti, dalla fede in Dio. Spesso, però, molte persone non possono partecipare alla ricostruzione del bene comune perché sono emarginate, sono escluse o ignorate; certi gruppi sociali non riescono a contribuirvi perché soffocati economicamente o politicamente. In alcune società, tante persone non sono libere di esprimere la propria fede e i propri valori, le proprie idee: se le esprimono vanno in carcere. Altrove, specialmente nel mondo occidentale, molti auto-reprimono le proprie convinzioni etiche o religiose. Ma così non si può uscire dalla crisi, o comunque non si può uscirne migliori. Usciremo in peggio.

Affinché tutti possiamo partecipare alla cura e alla rigenerazione dei nostri popoli, è giusto che ognuno abbia le risorse adeguate per farlo (cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa [CDSC], 186). Dopo la grande depressione economica del 1929, Papa Pio XI spiegò quanto fosse importante per una vera ricostruzione il principio di sussidiarietà (cfr Enc. Quadragesimo anno, 79-80). Tale principio ha un doppio dinamismo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Forse non capiamo cosa significa questo, ma è un principio sociale che ci fa più uniti.

Da un lato, e soprattutto in tempi di cambiamento, quando i singoli individui, le famiglie, le piccole associazioni o le comunità locali non sono in grado di raggiungere gli obiettivi primari, allora è giusto che intervengano i livelli più alti del corpo sociale, come lo Stato, per fornire le risorse necessarie ad andare avanti. Ad esempio, a causa del lockdown per il coronavirus, molte persone, famiglie e attività economiche si sono trovate e ancora si trovano in grave difficoltà, perciò le istituzioni pubbliche cercano di aiutare con appropriati interventi sociali, economici, sanitari: questa è la loro funzione, quello che devono fare.

Dall’altro lato, però, i vertici della società devono rispettare e promuovere i livelli intermedi o minori. Infatti, il contributo degli individui, delle famiglie, delle associazioni, delle imprese, di tutti i corpi intermedi e anche delle Chiese è decisivo. Questi, con le proprie risorse culturali, religiose, economiche o di partecipazione civica, rivitalizzano e rafforzano il corpo sociale (cfr CDSC, 185). Cioè, c’è una collaborazione dall’alto in basso, dallo Stato centrale al popolo e dal basso in alto: delle formazioni del popolo in alto. E questo è proprio l’esercizio del principio di sussidiarietà.

Ciascuno deve avere la possibilità di assumere la propria responsabilità nei processi di guarigione della società di cui fa parte. Quando si attiva qualche progetto che riguarda direttamente o indirettamente determinati gruppi sociali, questi non possono essere lasciati fuori dalla partecipazione. Per esempio: “Cosa fai tu? - Io vado a lavorare per i pover i – Bello, e cosa fai? – Io insegno ai poveri, io dico ai poveri quello che devono fare – No, questo non va, il primo passo è lasciare che i poveri dicano a te come vivono, di cosa hanno bisogno: Bisogna lasciar parlare tutti! E così funziona il principio di sussidiarietà. Non possiamo lasciare fuori della partecipazione questa gente; la loro saggezza, la saggezza dei gruppi più umili non può essere messa da parte (cfr Esort. ap. postsin Querida Amazonia [QA], 32; Enc. Laudato si’, 63). Purtroppo, questa ingiustizia si verifica spesso là dove si concentrano grandi interessi economici o geopolitici, come ad esempio certe attività estrattive in alcune zone del pianeta (cfr QA, 9.14). Le voci dei popoli indigeni, le loro culture e visioni del mondo non vengono prese in considerazione. Oggi, questa mancanza di rispetto del principio di sussidiarietà si è diffusa come un virus. Pensiamo alle grandi misure di aiuti finanziari attuate dagli Stati. Si ascoltano di più le grandi compagnie finanziarie anziché la gente o coloro che muovono l’economia reale. Si ascoltano di più le compagnie multinazionali che i movimenti sociali. Volendo dire ciò con il linguaggio della gente comune: si ascoltano più i potenti che i deboli e questo non è il cammino, non è il cammino umano, non è il cammino che ci ha insegnato Gesù, non è attuare il principio di sussidiarietà. Così non permettiamo alle persone di essere «protagoniste del proprio riscatto».[1] Nell’inconscio collettivo di alcuni politici o di alcuni sindacalisti c’è questo motto: tutto per il popolo, niente con il popolo. Dall’alto in basso ma senza ascoltare la saggezza del popolo, senza far attuare questa saggezza nel risolvere dei problemi, in questo caso nell’uscire dalla crisi. O pensiamo anche al modo di curare il virus: si ascoltano più le grandi compagnie farmaceutiche che gli operatori sanitari, impegnati in prima linea negli ospedali o nei campi-profughi. Questa non è una strada buona. Tutti vanno ascoltati, quelli che sono in alto e quelli che sono in basso, tutti.

Per uscire migliori da un a crisi, il principio di sussidiarietà dev’essere attuato, rispettando l’autonomia e la capacità di iniziativa di tutti, specialmente degli ultimi. Tutte le parti di un corpo sono necessarie e, come dice San Paolo, quelle parti che potrebbero sembrare più deboli e meno importanti, in realtà sono le più necessarie (cfr 1 Cor 12,22). Alla luce di questa immagine, possiamo dire che il principio di sussidiarietà consente ad ognuno di assumere il proprio ruolo per la cura e il destino della società. Attuarlo, attuare il principio di sussidiarietà dà speranza, dà speranza in un futuro più sano e giusto; e questo futuro lo costruiamo insieme, aspirando alle cose più grandi, ampliando i nostri orizzonti. [2] O insieme o non funziona. O lavoriamo insieme per uscire dalla crisi, a tutti i livelli della società, o non ne usciremo mai. Uscire dalla crisi non significa dare una pennellata di vernice alle situazioni attuali perché sembrino un po’ più giuste. Uscire dalla crisi significa cambiare, e il vero cambiamento lo fanno tutti, tutte le persone che formano il popolo. Tutte le professioni, tutti. E tutti insieme, tutti in comunità. Se non lo fanno tutti il risultato sarà negativo.

In una catechesi precedente abbiamo visto come la solidarietà è la via per uscire dalla crisi: ci unisce e ci permette di trovare proposte solide per un mondo più sano. Ma questo cammino di solidarietà ha bisogno della sussidiarietà. Qualcuno potrà dirmi: “Ma padre oggi sta parlando con parole difficili!”. Ma per questo cerco di spiegare cosa significa. Solidali, perché andiamo sulla strada della sussidiarietà. Infatti, non c’è vera solidarietà senza partecipazione sociale, senza il contributo dei corpi intermedi: delle famiglie, delle associazioni, delle cooperative, delle piccole imprese, delle espressioni della società civile. Tutti devono contribuire, tutti. Tale partecipazione aiuta a prevenire e correggere certi aspetti negativi della globalizzazione e dell’azione degli Stati, come accade anche nella cura della gente colpita dalla pandemia. Questi contributi “dal basso” vanno incentivati. Ma quanto è bello vedere il lavoro dei volontari nella crisi. I volontari che vengono da tutte le parti sociali, volontari che vengono dalle famiglie più benestanti e che vengono dalle famiglie più povere. Ma tutti, tutti insieme per uscire. Questo è solidarietà e questo è principio di sussidiarietà.

Durante il lockdown è nato spontaneo il gesto dell’applauso per i medici e gli infermieri e le infermiere come segno di incoraggiamento e di speranza. Tanti hanno rischiato la vita e tanti hanno dato la vita. Estendiamo questo applauso ad ogni membro del corpo sociale, a tutti, a ognuno, per il suo prezioso contributo, per quanto piccolo. “Ma cosa potrà fare quello di là?. – Ascoltalo, dagli spazio per lavorare, consultalo”. Applaudiamo gli “scartati”, quelli che questa cultura qualifica “scartati”, questa cultura dello scarto, cioè applaudiamo gli anziani, i bambini, le persone con disabilità, applaudiamo i lavoratori, tutti quelli che si mettono al servizio. Tutti collaborano per uscire dalla crisi. Ma non fermiamoci solo all’applauso! La speranza è audace, e allora incoraggiamoci a sognare in grande. Fratelli e sorelle, impariamo a sognare in grande! Non abbiamo paura di sognare in grande, cercando gli ideali di giustizia e di amore sociale che nascono dalla speranza. Non proviamo a ricostruire il passato, il passato è passato, ci aspettano cose nuove. Il Signore ha promesso: “Io farò nuove tutte le cose”. Incoraggiamoci a sognare in grande cercando questi ideali, non proviamo a ricostruire il passato, soprattutto quello che era iniquo e già malato, che ho nominato già come ingiustizie. Costruiamo un futuro dove la dimensione locale e quella globale si arricchiscano mutualmente, - ognuno può dare il suo, ognuno deve dare del suo, la sua cultura, la sua filosofia, il suo modo di pensare -, dove la bellezza e la ricchezza dei gruppi minori anche dei gruppi scartati possa fiorire perché pure lì c’è bellezza, e dove chi ha di più si impegni a servire e a dare di più a chi ha di meno.

Papa Francesco, Udienza Generale. Cortile San Damaso. Mercoledì, 23 settembre 2020

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!


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Per uscire da una pandemia, occorre curarsi e curarci a vicenda. E bisogna sostenere chi si prende cura dei più deboli, dei malati e degli anziani. C’è l’abitudine di lasciare da parte gli anziani, di abbandonarli: è brutto, questo. Queste persone – ben definite dal termine spagnolo “cuidadores”, coloro che si prendono cura degli ammalati – svolgono un ruolo essenziale nella società di oggi, anche se spesso non ricevono il riconoscimento e la rimunerazione che meritano. Il prendersi cura è una regola d’oro del nostro essere umani, e porta con sé salute e speranza (cfr Enc. Laudato si’ [LS], 70). Prendersi cura di chi è ammalato, di chi ha bisogno, di chi è lasciato da parte: questa è una ricchezza umana e anche cristiana.

Questa cura, dobbiamo rivolgerla anche alla nostra casa comune: alla terra e ad ogni creatura. Tutte le forme di vita sono interconnesse (cfr ibid., 137-138), e la nostra salute dipende da quella degli ecosistemi che Dio ha creato e di cui ci ha incaricato di prenderci cura (cfr Gen 2,15). Abusarne, invece, è un peccato grave che danneggia, che fa male e che fa ammalare (cfr LS, 8; 66). Il migliore antidoto contro questo uso improprio della nostra casa comune è la contemplazione (cfr ibid., 85; 214). Ma come mai? Non c’è un vaccino per questo, per la cura della casa comune, per non lasciarla da parte? Qual è l’antidoto contro la malattia di non prendersi cura della casa comune? È la contemplazione. «Quando non si impara a fermarsi ad ammirare e apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (ibid., 215). Anche in oggetto di “usa e getta”. Tuttavia, la nostra casa comune, il creato, non è una mera “risorsa”. Le creature hanno un valore in sé stesse e «riflettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 339). Questo valore e questo raggio di luce divina va scoperto e, per scoprirlo, abbiamo bisogno di fare silenzio, abbiamo bisogno di ascoltare, abbiamo bisogno di contemplare. Anche la contemplazione guarisce l’anima.

Senza contemplazione, è facile cadere in un antropocentrismo squilibrato e superbo, l’“io” al centro di tutto, che sovradimensiona il nostro ruolo di esseri umani, posizionandoci come dominatori assoluti di tutte le altre creature. Una interpretazione distorta dei testi biblici sulla creazione ha contribuito a questo sguardo sbagliato, che porta a sfruttare la terra fino a soffocarla. Sfruttare il creato: questo è il peccato. Crediamo di essere al centro, pretendendo di occupare il posto di Dio e così roviniamo l’armonia del creato, l’armonia del disegno di Dio. Diventiamo predatori, dimenticando la nostra vocazione di custodi della vita. Certo, possiamo e dobbiamo lavorare la terra per vivere e svilupparci. Ma il lavoro non è sinonimo di sfruttamento, ed è sempre accompagnato dalla cura: arare e proteggere, lavorare e prendersi cura… Questa è la nostra missione (cfr Gen 2,15). Non possiamo pretendere di continuare a crescere a livello materiale, senza prenderci cura della casa comune che ci accoglie. I nostri fratelli più poveri e la nostra madre terra gemono per il danno e l’ingiustizia che abbiamo provocato e reclamano un’altra rotta. Reclamano da noi una conversione, un cambio di strada: prendersi cura anche della terra, del creato.

Dunque, è importante recuperare la dimensione contemplativa, cioè guardare la terra, il creato come un dono, non come una cosa da sfruttare per il profitto. Quando contempliamo, scopriamo negli altri e nella natura qualcosa di molto più grande della loro utilità. Qui è il nocciolo del problema: contemplare è andare oltre l’utilità di una cosa. Contemplare il bello non vuol dire sfruttarlo: contemplare è gratuità. Scopriamo il valore intrinseco delle cose conferito loro da Dio. Come hanno insegnato tanti maestri spirituali, il cielo, la terra, il mare, ogni creatura possiede questa capacità iconica, questa capacità mistica di riportarci al Creatore e alla comunione con il creato. Ad esempio, Sant’Ignazio di Loyola, alla fine dei suoi Esercizi spirituali, invita a compiere la “Contemplazione per giungere all’amore”, cioè a considerare come Dio guarda le sue creature e gioire con loro; a scoprire la presenza di Dio nelle sue creature e, con libertà e grazia, amarle e prendersene cura.

La contemplazione, che ci conduce a un atteggiamento di cura, non è un guardare la natura dall’esterno, come se noi non vi fossimo immersi. Ma noi siamo dentro alla natura, siamo parte della natura. Si fa piuttosto a partire da dentro, riconoscendoci parte del creato, rendendoci protagonisti e non meri spettatori di una realtà amorfa che si tratterebbe solo di sfruttare. Chi contempla in questo modo prova meraviglia non solo per ciò che vede, ma anche perché si sente parte integrante di questa bellezza; e si sente anche chiamato a custodirla, a proteggerla. E c’è una cosa che non dobbiamo dimenticare: chi non sa contemplare la natura e il creato, non sa contemplare le persone nella loro ricchezza. E chi vive per sfruttare la natura, finisce per sfruttare le persone e trattarle come schiavi. Questa è una legge universale: se tu non sai contemplare la natura, sarà molto difficile che saprai contemplare la gente, la bellezza delle persone, il fratello, la sorella.

Chi sa contemplare, più facilmente si metterà all’opera per cambiare ciò che produce degrado e danni alla salute. Si impegnerà a educare e promuovere nuove abitudini di produzione e consumo, a contribuire ad un nuovo modello di crescita economica che garantisca il rispetto per la casa comune e il rispetto per le persone. Il contemplativo in azione tende a diventare custode dell’ambiente: è bello questo! Ognuno di noi dev’essere custode dell’ambiente, della purezza dell’ambiente, cercando di coniugare saperi ancestrali di culture millenarie con le nuove conoscenze tecniche, affinché il nostro stile di vita sia sempre sostenibile.

Infine, contemplare e prendersi cura: ecco due atteggiamenti che mostrano la via per correggere e riequilibrare il nostro rapporto di esseri umani con il creato. Tante volte, il nostro rapporto con il creato sembra essere un rapporto tra nemici: distruggere il creato a mio vantaggio; sfruttare il creato a mio vantaggio. Non dimentichiamo che questo si paga caro; non dimentichiamo quel detto spagnolo: “Dio perdona sempre; noi perdoniamo a volte; la natura non perdona mai”. Oggi leggevo sul giornale di quei due grandi ghiacciai dell’Antartide, vicino al Mare di Amundsen: stanno per cadere. Sarà terribile, perché il livello del mare crescerà e questo porterà tante, tante difficoltà e tanto male. E perché? Per il surriscaldamento, per non curare l’ambiente, per non curare la casa comune. Invece, quando abbiamo questo rapporto – mi permetto la parola – “fraternale” in senso figurato con il creato, diventeremo custodi della casa comune, custodi della vita e custodi della speranza, custodiremo il patrimonio che Dio ci ha affidato affinché ne possano godere le generazioni future. E qualcuno può dire: “Ma, io me la cavo così”. Ma il problema non è come tu te la caverai oggi – questo lo diceva un teologo tedesco, protestante, bravo: Bonhoeffer – il problema non è come te la cavi tu, oggi; il problema è: quale sarà l’eredità, la vita della generazione futura? Pensiamo ai figli, ai nipoti: cosa lasceremo, loro, se noi sfruttiamo il creato? Custodiamo questo cammino così diventeremo “custodi” della casa comune, custodi della vita e della speranza. Custodiamo il patrimonio che Dio ci ha affidato, affinché possano goderne le generazioni future. Penso in modo speciale ai popoli indigeni, verso i quali abbiamo tutti un debito di riconoscenza – anche di penitenza, per riparare il male che abbiamo fatto loro. Ma penso anche a quei movimenti, associazioni, gruppi popolari, che si impegnano per tutelare il proprio territorio con i suoi valori naturali e culturali. Non sempre queste realtà sociali sono apprezzate, a volte sono persino ostacolate, perché non producono soldi; ma in realtà contribuiscono a una rivoluzione pacifica, potremmo chiamarla la “rivoluzione della cura”. Contemplare per curare, contemplare per custodire, custodire noi, il creato, i nostri figli, i nostri nipoti e custodire il futuro. Contemplare per curare e per custodire e per lasciare un’eredità alla futura generazione.

Non bisogna però delegare ad alcuni: quello che è il compito di ogni essere umano. Ognuno di noi può e deve diventare un “custode della casa comune”, capace di lodare Dio per le sue creature, di contemplare le creature e di proteggerle.

Papa Francesco, Udienza Generale. Cortile San Damaso. Mercoledì, 16 settembre 2020

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